ROMA – Contributo dalla rivista “Laspro nr 39”

E’ uscito il numero 39 di Laspro (marzo/aprile 2017). È un numero speciale, a sostegno della campagna Pagine contro la tortura – circa il divieto di ricevere libri e stampe nelle sezioni carcerarie 41bis. Abbiamo voluto raccontare il carcere, le istituzioni totali e anche l’esperienza della lettura e della letteratura in relazione ad essi.
Nel numero, ci sono articoli e racconti di chi il carcere l’ha vissuto e raccontato, come anche l’esperienza manicomiale, e articoli volutamente senza firma o firmati con uno pseudonimo, a indicare una condizione comune. Di seguito il link e un contributo: LASPRO 39 rivista di letteratura arti & mestieri

“Dallo stagno – Percorsi carcerari differenziati”

Scrivere una storia che possa raccontare il carcere fuori da schemi pietistici o colpevolizzanti.

Raccontare del carcere, della vita in quegli spazi, della percezione del tempo. Uno stagno in cui, quando un sasso cade, le sue acque ferme si tramutano in un numero non prevedibile di cerchi concentrici.  Mi chiedi com’è lo scorrere dei miei giorni.  Dovrei riuscire a trovare una forma, una modalità di scrittura che ti raggiunga in modo secco, preciso, che te lo descriva senza fronzoli linguistici. Frasi del tipo: «in carcere non si parla, si urla»,  «le porte non si chiudono, si sbattono». Grida e rumori metallici. Luci a neon e poi quell’odore…

Vorrei rifuggire dai cliché del portone metallico che ti si chiude dietro immergendoti in un’improvvisa quanto inesplorata solitudine. Eppure mi viene solo da dire che non è vero, non è un unico portone ma sono tanti i corridoi che attraversi e tante le porte che continuano a chiudersi alle spalle del tuo passaggio.

La sensazione è che stai compiendo infiniti passi che ti distanziano dalla vita lasciata lì fuori, mentre entri nel ventre di qualcosa che ti sta inghiottendo, passando da una guardia ad un’altra. “Consegnata” dicono di me.

I primi giorni li passi a cercare di capire cosa c’è attorno, come organizzare le tue giornate dettate inesorabilmente dai ritmi di lenta produzione della fabbrica-carcere. Possibile riuscire a far scorrere il tempo da qui? Sono in un reparto di Alta Sicurezza, quelli destinati a “ospitare” chi viene ritenuto colpevole di reati di un certo spessore di pericolosità sociale, una definizione giuridica. Su di noi una maggiore attenzione  e impossibilità a partecipare ad attività organizzate se non presenti all’interno della sezione. Non ci devono essere contatti tra le persone detenute nei diversi circuiti della fabbrica-carcere. I prodotti devono essere tenuti separati.

Non ne capisco la ragione in quei primi giorni.

Sono concentrata e silenziosa. Osservo come le altre vivono il tempo e le relazioni tra loro, come gestiscono lo stesso spazio di una cella fatto di pochi metri quadrati, insieme a persone che non si sono reciprocamente scelte e che, molto probabilmente, mai l’avrebbero fatto se non costrette. Come ci si muove tra quei corridoi, come viene vissuto l’inevitabile quanto frequente interfacciarsi con i secondini. Come affrontano la privazione degli affetti, il sorgere della paura, della rabbia. Come si convive con le attese: di una lettera, di un colloquio, di una telefonata, di un giorno di udienza (il cui esito potrebbe, forse, determinare l’uscita dalla galera).

Alcune donne sono qui già da anni. So di avere molto da imparare da loro. Devo trovare anch’io in me gli strumenti utili a non inaridirmi, a non perdere le mie curiosità, la mia voglia di conoscere e di vivere. Devo capire come usarli e soprattutto come farli emergere in una condizione di ostilità.

Ma nel frattempo mi ritrovo già a condividere tempi e  ritmi di convivialità intorno al tavolo di una cella, televisionecaffèsigarettepranzocenacucinapuliziadeglispaziepersonale. I momenti intimi, quello dei racconti dei singoli vissuti: confidenze fatte a mezza voce, emozioni urlate. E poi c’è la difficile arte della salvaguardia del proprio spazio vitale, allenandosi a dire “No, ora no e domani non so” senza sentirsi stronze…

Il tempo scorre, in realtà neanche troppo lento, e mi ritrovo, in breve, o per lo meno così percepisco, ad essere io ad accogliere “la nuova giunta” (cronologicamente l’ultima entrata in sezione), a rassicurarla, a descriverle lo scorrere delle nostre giornate senza trasmetterle un senso di definitività e immutabilità.

Ecco che mi riscopro a ridere insieme ad alcune, ma a ridere di cuore!  Quale intensità ricevi da quelle risate che sembrano sorgere da un nonnulla, prorompendo in quegli spazi in cui tutto echeggia e rimbomba! Ecco, quella risata è uno dei sassi nello stagno: relazioni che si intrecciano e che vanno oltre la mera necessità della convivenza. Legami di profonda fiducia e compartecipazione, intesa di sguardi e gesti. Messa in gioco nella difesa della dignità comune, nell’arginare le reiterate noncuranze, quando non scientifiche prevaricazioni, di chi gestisce e controlla quei luoghi chiusi ad ogni tentativo di affermazione di autonomia. La chiamano l’infantilizzazione del percorso carcerario. Non a caso molti termini strettamente legati alla vita carceraria hanno la desinenza del diminutivo: spesina, bettolino, domandina… Nulla dipende più da te e dalla tua volontà. Tutto passa attraverso la discrezionalità di chi autorizza la tua richiesta. Autorizzazioni per colloqui, telefonate, letture, studio, acquisti, lavoro, attività  etc etc.. sono eventualmente concesse solo dopo aver presentato una richiesta scritta al direttore su un modulo  chiamato, appunto “domandina”.

Spesso, invece,  le  domande verbali non hanno risposta. Quasi fosse un muro di gomma, chi agisce l’istituzione carceraria è accuratamente attento ad eludere risposte chiare: l’incertezza della tua condizione, la sua vulnerabilità e dipendenza è un concetto che devi avere ben chiaro affinché tu non abbia alcun presupposto su cui basare un progetto che abbia continuità nel tempo, un respiro un po’ più ampio.

La precarietà è una forma di controllo che accomuna i “fuori” e i “dentro”. Ancora una volta lo stagno che può, improvvisamente e senza alcun segnale premonitore, diventare uno tsunami se un enorme sasso viene lanciato al suo interno. Perché oggi sono qui e domani chissà, potrei essere spostata ed “assegnata ad altro carcere”. E se questo avverrà sarà un faticoso ricominciare. Ci saranno nuove regole, nuove relazioni, altri equilibri. I trasferimenti avvengono per motivi legati al comportamento (quindi per motivi punitivi) oppure a incomprensibili giochi di spostamenti su ancor più incomprensibili scacchiere. La spada di Damocle dei trasferimenti è una delle armi di ricatto più affilate anche perché quasi mai vengono decisi a favore della persona detenuta al fine, per esempio, di agevolare gli spostamenti dei parenti (spesso costretti ad affrontare chilometri e chilometri di viaggio) in occasione dei colloqui.

Dopo tutti questi anni  ho capito come trascorrere le mie giornate, come farle passare in fretta, come rallentarle quando necessario, in questa assurda dimensione spazio temporale. Studio, leggo,  partecipo ai corsi di attività fisica, lavoro, ascolto musica e radio, scrivo e corrispondo con i miei affetti, chiacchiero e ragiono con le altre, assaporo le ore che mi distanziano dal  colloquio settimanale o dalla  telefonata ai miei cari.

Sono, dicevo, in una sezione separata dal resto del carcere. Ora il perché di questa separazione  mi è chiaro! La differenziazione è alla base della gestione del carcere: premialità e punizione. A seconda del circuito in cui vieni assegnato avrai diritto a più o meno colloqui e telefonate mensili, a più o meno ore d’aria, alla possibilità o meno di partecipare a corsi scolastici o di formazione e via dicendo. La piramide la faccio partire dal basso, cioè dai reparti che hanno meno restrizioni: le sezioni così dette comuni (cioè per persone imputate o condannate per reati di non pericolosità sociale); le sezioni di alta sicurezza (per reati di pericolosità sociale) che a loro volta sono suddivise in 3 circuiti AS1 – AS2 – AS3; il regime di 41bis (per reati di associazione mafiosa e associazione terroristica).

Tra i racconti confidenziali, quelli sussurrati, ci sono anche quelli disperati di donne che hanno i loro mariti ristretti nel circuito 41bis. Ed è in particolare di quest’ultimo che oggi ti voglio parlare.

Pensato e realizzato in tempi così detti di emergenza, quindi in teoria provvisorio, si è di anno in anno sempre più formalizzato e regimentato.

Il 41bis è carcere nel carcere.

Logisticamente collocato in aree detentive assolutamente separate da tutto il resto, spesso sotto terra, insonorizzate, con  finestre opache e a bocca di lupo che fanno passare ben poca luce e un filo d’aria. Celle collocate a spina di pesce, per impedire qualsiasi comunicazione con chi è rinchiuso nella cella di fronte. Divieto assoluto di comunicare quanto di salutarsi, rivolgersi un cenno, un gesto umano. Telecamere di sorveglianza dentro la cella e dentro i bagni.  Nessuna possibilità di cucinare e quindi costretti a mangiare il vitto dell’amministrazione penitenziaria. Una cella per ogni singola persona detenuta e un’ora, massimo due, di aria al giorno passate assieme ad altre 3 persone scelte dal direttore del carcere.  Nessuna attività a cui poter partecipare, nessun lavoro, nessun incontro con volontari e/o operatori esterni. La corrispondenza è censurata oltre ad essere ridotta sia in entrata che in uscita. Un’ora di colloquio al mese separato dai propri affetti da un vetro divisore, costretti a parlare attraverso citofoni. Nessuna possibilità di abbracciare i propri cari e i figli puoi averli al di là del vetro solo negli ultimi 10 minuti di colloquio e solo fino al compimento dei loro 10 anni di età…

Inoltre le enormi distanze che, quasi sempre, i parenti dei detenuti in 41bis devono affrontare fanno da deterrente alla mensile realizzazione del colloquio: troppi i chilometri, troppe le spese.  Anche la partecipazione fisica alle udienze che riguardano il proprio caso giuridico è impedita: processo in videoconferenza, si chiama. Un abominio che lede fortemente l’espletamento del diritto di difesa e che rappresenta un’ulteriore privazione, risolvendosi nell’impossibilità di incrociare uno sguardo d’affetto, un volto caro seppure nella freddezza di un’aula di tribunale.

A tutto questo si aggiunge che l’8 febbraio di quest’anno la  Corte costituzionale, per buona pace dei sinceri democratici, ha formalmente legittimato per ragioni di sicurezza una circolare del DAP (Dipartimento di Amministrazione Penitenziaria) che impedisce a chi è in 41bis di ricevere libri, riviste, quotidiani, dispense tramite colloqui e abbonamenti e persino dalle biblioteche presenti in alcuni carceri! Unica possibilità l’acquisto, ovviamente a proprie spese, che avviene previa autorizzazione del direttore e poi materialmente comprato dal personale penitenziario addetto. Risultato? Troppo oneroso per il detenuto e spesso, inoltre,  la richiesta di acquisto non viene evasa in quanto non ritenuta idonea oppure non reperibile. Gli effetti sono che l’impedimento alla lettura  e allo studio è totale!

Io, che ho riempito tutta la mia giornata qui dentro, mi domando come loro facciano a resistere. Come riescano a far passare il tempo senza nessuna  possibilità di distrazione, di acquisizione di informazioni dall’esterno, di strumenti volti all’arricchimento individuale. Isolamento totale. Tombati per anni e anni, molti di loro anche con condanne all’ergastolo. E poi in 41bis ci finisci anche se non hai ancora avuto tutti i tre gradi di giudizio, quindi sei formalmente «non colpevole».

Secondo le leggi di questo stato, l’unica via di uscita da questa condizione è la delazione. Raccontare a chi di dovere non solo le proprie responsabilità ma anche quelle altrui. Con tanto di nomi e cognomi. Fare entrare qualcun altro per salvare sé stessi. Come ai tempi dell’inquisizione in cui la confessione, l’abiura e il tradimento avrebbero potuto determinare la fine della tortura.

Ci dicono che nel 41bis sono rinchiusi solo capi mafia. Ma ad oggi all’interno ci sono circa 780 detenuti di cui 6 donne! Numeri troppo elevati, evidentemente, che non vanno certo a sostegno di quanto da loro affermato.  Dicono che chi definisce questo regime detentivo «tortura» è complice o sostenitore dei mafiosi! Poco importa, non posso né voglio essere la scimmietta di turno che chiude gli occhi, le orecchie e la bocca. Quelle sezioni sono lontane, rese scientificamente invisibili ai più,  ma io so che ci sono. So che esistono anche allo scopo di servire da monito per chi come noi è rinchiuso qui; perché i cerchi concentrici di questo stagno a volte si sfiorano e sovrappongono e quello che passa in una sezione prima o poi  si estende alle altre.

Perché l’emergenza, l’eccezione qui è la regola.