Contributo da Acad Firenze al presidio davanti al carcere di San Giminiano

Buongiorno!
Aderiamo convintamente e saremo presenti al presidio in solidarietà per i detenuti del carcere di San Gimignano e idealmente a tutti i detenuti e le detenute. Persone che vivono quotidianamente la tortura di atroci condizioni carcerarie e delle restrizioni del 41 bis con l’aggravante dell’isolamento culturale dal non poter ricevere libri. Aderiamo inoltre alla campagna “pagine contro la tortura” e la rilanceremo attraverso le nostre pagine.
Acad Firenze
Pubblichiamo, nello scritto a seguire, il nostro intervento durante il presidio di sabato 26 ott 2019 davanti al carcere di San Gimignano (Si).

Ringraziamo ancora tutte le realtà per essere state presenti a questo importante momento di solidarietà e lotta, con la speranza che sia stato di supporto ai carcerati per non mollare la difficile battaglia di denuncia verso gli abusi subiti.

Nel video un momento dei cori in solidarietà ai detenuti.

Pubblichiamo, nello scritto a seguire, il nostro intervento durante il presidio di sabato 26 davanti al carcere di San Gimignano (Si).Ringraziamo ancora tutte le realtà per essere state presenti a questo importante momento di solidarietà e lotta, con la speranza che sia stato di supporto ai carcerati per non mollare la difficile battaglia di denuncia verso gli abusi subiti. Nel video un momento dei cori in solidarietà ai detenuti. "Un saluto ed un abbraccio a tutti i detenuti da ACAD (Associazione contro gli abusi in divisa).Siamo qui oggi insieme ai compagni e le compagne della "campagna pagine contro la tortura", al CPA Fi sud, Colpol e al Collettivo Antipsichiatrico di Pisa, per gridare e rompere il silenzio agghiacciante che circonda tutti gli abusi del sistema carcerario italiano, dello Stato italiano, delle forze dell’ordine italiane, delle istituzioni tutte.Siamo qui oggi in solidarietà ai detenuti del carcere di San Gimignano e di tutte le altre patrie galere, siamo qui per dire grazie al coraggio di chi ha avuto la forza di denunciare il sistema di abusi e torture di questo penitenziario, che ha portato all’indagine per 15 guardie con la pesante accusa di aver picchiato fino allo svenimento un detenuto. Lui ce l’ha fatta, è sopravvissuto all’incubo del potere che esercita la propria forza coercitiva su di un carcerato inerme, non ce l’hanno fatta i tanti massacrati Stefano Cucchi, i presunti suicidi inscenati dei tanti Stefano Frapporti, o i tanti indotti al suicidio Aldo Scardella, proclamatasi innocenti e morti da innocenti, con la beffa della condanna post-mortem per i veri colpevoli, o i tanti rispediti alla madre senza organi interni svuotati come carne da brace Daniele Franceschi, non ce l’hanno fatta i tanti Aldo Bianzino, quegli strani infarti che solo tra le mani delle forze dell’ordine succedono, con fegati spappolati, milze spappolate, cuori scoppiati, teste aperte e sangue ovunque, come per i tanti Marcello Lonzi , o i tanti Riccardo Boccaletto lasciati morire tra stenti ed anoressia, o i narcotizzati e poi strangolati Mario Scrocca.Siamo qui oggi e in contemporanea anche davanti al carcere di Parma per i tanti Egidio Tiraborelli lasciati morire di cancro, con il rifiuto della concessione dei domiciliari, abbandonato alla morte tra atroci sofferenze a 82 anni, di cui gli ultimi 9 mesi in carcere per il triste reato di solidarietà verso un migrante, con l’accusa di favoreggiamento all’immigrazione clandestina. Siamo qui per i tanti compagni e compagne prigionieri o sotto processo per le battaglie contro questo Stato fatto di abusi e diritti negati, fatto di violenza e repressione, tortura e morte, garantite da un sistema penale malato e servi armati. Siamo qui oggi anche per i troppi massacrati e soffocati nelle nostre Città come Riccardo Magherini, Federico Aldrovandi, Arafet Arfaoui o i torturati nelle caserme come i tanti Giuseppe Uva, o i morti sparati a freddo come i tanti Dino Budroni e Davide Bifolco. Tutti uccisi più volte, dalle forze dell’ordine, dallo Stato, dalla stampa, dall’opinione pubblica, dalla mala giustizia. L’impunità è l’unica loro risposta a tutto questo: assoluzioni, archiviazioni, omertà, depistaggi, insabbiamenti, finte condanne, di uno Stato che seguita a reprimerci e ad autoassolversi nei continui abusi di potere commessi. Uno Stato ostinato nelle sue azioni di “ordine e disciplina” per i carcerati, per gli Ultras, per i poveri, per chi lotta, e ostinato a garantire impunità per i sui sicari fuori e dentro le carceri.Siamo stanchi di sentir parlare di mele marce o casi isolati. La tortura di Stato è ovunque. La divisa è abuso, è prepotenza, è vigliaccheria, è parte integrante di un sistema marcio che inizia con la violenza dei diritti negati e leggi ingiuste, continua con la violenza del suo braccio armato e finisce con le assoluzioni. Il carcere è la fortezza invalicabile degli abusi, è l’emblema di un sistema di controllo sociale e repressione che ha prodotto negli ultimi 19 anni 2.987 morti, di cui 1.090 suicidi.103 morti con 37 suicidi solo nel 2019. PRATICAMENTE TUTTI IMPUNITI.Una lista infinita di tortura e morte. Da sempre il carcere rappresenta lo spazio in cui lo Stato tende a confinare il più lontano possibile dagli occhi della società gli abusi più atroci. La collocazione fisica, fuori e lontano dalla società, rispecchia esattamente quella che, di fatto, è la funzione che viene tacitamente data al carcere e da chi vi opera all’interno: allontanare, emarginare, dimenticare ed annientare.Annientare dentro e fuori, durante le detenzione e anche dopo, al momento del reinserimento nel tessuto sociale. Reinserimento che di fatto, poi, non avviene mai, perché il marchio indelebile dato dal carcere rimane addosso per sempre. Sempre che dal carcere ne esca vivi.Attraverso lo strumento del carcere lo Stato pone in essere ogni misura che possa portare a reprimere e distruggere la persona, e lo fa, non solo privando la persona stessa della libertà fisica e di movimento, ma anche creando all’interno del carcere condizioni tali da rendere impossibile la sopravvivenza: sovraffollamento, condizioni igieniche da epidemie, negazione dei diritti più basilari come quello dell’acqua potabile o delle cure mediche, la somministrazione di psicofarmaci, l’atroce tortura dell’isolamento nel 41 bis come in altri regimi differenziati speciali, il martirio delle celle zero portato alla luce da varie testimonianze di carcerati picchiati e rinchiusi lì dentro per farli “calmare”.Vivere in carcere non è vivere, è sopravvivere in una morte in vita. E troppo spesso morire. In un paese in cui si pensa che la pena di morte sia abolita da secoli, è invece il carcere stesso ad essere pena capitale.Il carcere, infatti, è un microcosmo a parte, INVALICABILE, INCONTROLLABILE SOCIALMENTE, con regole e regolamenti propri, con vessazioni e sopraffazioni interne di cui nessuno al di fuori del carcere sa niente, perché tra le mura penitenziarie tutto resta magistralmente arginato e secretato da quello stesso spirito di corpo che ritroviamo anche nelle forze dell’ordine sulle strade e ovunque.L’abuso commesso all’interno di un carcere è un abuso che raramente emerge all’esterno, proprio perché le alte mura che separano i detenuti dal mondo sono uno dei filtri più potenti ed efficaci che lo Stato ha a disposizione per abusare del proprio fittizio potere rieducativo, per creare ampie frange di esclusione e marginalità sia all’esterno che all’interno del carcere e per esercitare tutto il proprio potere coercitivo.Non è un caso che gli ultimi decreti sicurezza abbiano riproposto vecchi reati del passato, che erano depenalizzati da anni, e che prevedano sempre sistematicamente l’aumento delle pene, in particolare quelle detentive, come strumento repressivo principale. L’obiettivo per queste leggi, è quello di emarginare ed annichilire la persona, e il carcere da sempre è il mezzo più efficace per farlo.In questo clima, e in questo contesto quindi, la conseguenza più immediata è che chi opera in questo microcosmo lontano da tutto e tutti si senta non solo legittimato ad abusare della propria qualifica, ma anche tutelato. Con l' ulteriore, drammatica conseguenza, che di abusi, suicidi e omicidi in carcere, non si parla quasi mai. Che raramente si aprono processi penali a carico di appartenenti alla polizia penitenziaria e che, per omertà e coperture, molto spesso ogni accenno di indagine finisce nel vuoto con le archiviazioni delle Procure.Tutto questo è insopportabile e deve finire. Uniti, detenuti e solidali, dobbiamo portare avanti la lotta contro le carceri, contro la tortura, contro ogni tipo di abuso, contro questo Stato che ci sta facendo affondare in un mare di merda. Agitiamoci fuori per tenere viva la gente dentro, agitatevi dentro per contagiarvi di lotte e speranza, la solidarietà e la connessione tra le varie battaglie è la nostra arma più potente.Acad-OnlusNumero VERDE PER EMERGENZE 800588605MAIL infoacad@inventati.orgIndirizzo postale: A.P.C. Radiosonar.net largo Ferruccio Mencaroni snc Roma"

Julkaissut ACAD Associazione Contro gli Abusi in Divisa – Onlus Maanantaina 28. lokakuuta 2019

“Un saluto ed un abbraccio a tutti i detenuti da ACAD (Associazione contro gli abusi in divisa).

Siamo qui oggi insieme ai compagni e le compagne della “campagna pagine contro la tortura”, al CPA Fi sud, Colpol e al Collettivo Antipsichiatrico di Pisa, per gridare e rompere il silenzio agghiacciante che circonda tutti gli abusi del sistema carcerario italiano, dello Stato italiano, delle forze dell’ordine italiane, delle istituzioni tutte.

Siamo qui oggi in solidarietà ai detenuti del carcere di San Gimignano e di tutte le altre patrie galere, siamo qui per dire grazie al coraggio di chi ha avuto la forza di denunciare il sistema di abusi e torture di questo penitenziario, che ha portato all’indagine per 15 guardie con la pesante accusa di aver picchiato fino allo svenimento un detenuto.

Lui ce l’ha fatta, è sopravvissuto all’incubo del potere che esercita la propria forza coercitiva su di un carcerato inerme, non ce l’hanno fatta i tanti massacrati Stefano Cucchi, i presunti suicidi inscenati dei tanti Stefano Frapporti, o i tanti indotti al suicidio Aldo Scardella, proclamatasi innocenti e morti da innocenti, con la beffa della condanna post-mortem per i veri colpevoli, o i tanti rispediti alla madre senza organi interni svuotati come carne da brace Daniele Franceschi, non ce l’hanno fatta i tanti Aldo Bianzino, quegli strani infarti che solo tra le mani delle forze dell’ordine succedono, con fegati spappolati, milze spappolate, cuori scoppiati, teste aperte e sangue ovunque, come per i tanti Marcello Lonzi , o i tanti Riccardo Boccaletto lasciati morire tra stenti ed anoressia, o i narcotizzati e poi strangolati Mario Scrocca.

Siamo qui oggi e in contemporanea anche davanti al carcere di Parma per i tanti Egidio Tiraborelli lasciati morire di cancro, con il rifiuto della concessione dei domiciliari, abbandonato alla morte tra atroci sofferenze a 82 anni, di cui gli ultimi 9 mesi in carcere per il triste reato di solidarietà verso un migrante, con l’accusa di favoreggiamento all’immigrazione clandestina.
Siamo qui per i tanti compagni e compagne prigionieri o sotto processo per le battaglie contro questo Stato fatto di abusi e diritti negati, fatto di violenza e repressione, tortura e morte, garantite da un sistema penale malato e servi armati.
Siamo qui oggi anche per i troppi massacrati e soffocati nelle nostre Città come Riccardo Magherini, Federico Aldrovandi, Arafet Arfaoui o i torturati nelle caserme come i tanti Giuseppe Uva, o i morti sparati a freddo come i tanti Dino Budroni e Davide Bifolco.

Tutti uccisi più volte, dalle forze dell’ordine, dallo Stato, dalla stampa, dall’opinione pubblica, dalla mala giustizia.

L’impunità è l’unica loro risposta a tutto questo: assoluzioni, archiviazioni, omertà, depistaggi, insabbiamenti, finte condanne, di uno Stato che seguita a reprimerci e ad autoassolversi nei continui abusi di potere commessi.

Uno Stato ostinato nelle sue azioni di “ordine e disciplina” per i carcerati, per gli Ultras, per i poveri, per chi lotta, e ostinato a garantire impunità per i sui sicari fuori e dentro le carceri.

Siamo stanchi di sentir parlare di mele marce o casi isolati. La tortura di Stato è ovunque. La divisa è abuso, è prepotenza, è vigliaccheria, è parte integrante di un sistema marcio che inizia con la violenza dei diritti negati e leggi ingiuste, continua con la violenza del suo braccio armato e finisce con le assoluzioni.

Il carcere è la fortezza invalicabile degli abusi, è l’emblema di un sistema di controllo sociale e repressione che ha prodotto negli ultimi 19 anni 2.987 morti, di cui 1.090 suicidi.
103 morti con 37 suicidi solo nel 2019.
PRATICAMENTE TUTTI IMPUNITI.
Una lista infinita di tortura e morte.

Da sempre il carcere rappresenta lo spazio in cui lo Stato tende a confinare il più lontano possibile dagli occhi della società gli abusi più atroci. La collocazione fisica, fuori e lontano dalla società, rispecchia esattamente quella che, di fatto, è la funzione che viene tacitamente data al carcere e da chi vi opera all’interno: allontanare, emarginare, dimenticare ed annientare.
Annientare dentro e fuori, durante le detenzione e anche dopo, al momento del reinserimento nel tessuto sociale. Reinserimento che di fatto, poi, non avviene mai, perché il marchio indelebile dato dal carcere rimane addosso per sempre.
Sempre che dal carcere ne esca vivi.

Attraverso lo strumento del carcere lo Stato pone in essere ogni misura che possa portare a reprimere e distruggere la persona, e lo fa, non solo privando la persona stessa della libertà fisica e di movimento, ma anche creando all’interno del carcere condizioni tali da rendere impossibile la sopravvivenza: sovraffollamento, condizioni igieniche da epidemie, negazione dei diritti più basilari come quello dell’acqua potabile o delle cure mediche, la somministrazione di psicofarmaci, l’atroce tortura dell’isolamento nel 41 bis come in altri regimi differenziati speciali, il martirio delle celle zero portato alla luce da varie testimonianze di carcerati picchiati e rinchiusi lì dentro per farli “calmare”.

Vivere in carcere non è vivere, è sopravvivere in una morte in vita. E troppo spesso morire. In un paese in cui si pensa che la pena di morte sia abolita da secoli, è invece il carcere stesso ad essere pena capitale.
Il carcere, infatti, è un microcosmo a parte, INVALICABILE, INCONTROLLABILE SOCIALMENTE, con regole e regolamenti propri, con vessazioni e sopraffazioni interne di cui nessuno al di fuori del carcere sa niente, perché tra le mura penitenziarie tutto resta magistralmente arginato e secretato da quello stesso spirito di corpo che ritroviamo anche nelle forze dell’ordine sulle strade e ovunque.

L’abuso commesso all’interno di un carcere è un abuso che raramente emerge all’esterno, proprio perché le alte mura che separano i detenuti dal mondo sono uno dei filtri più potenti ed efficaci che lo Stato ha a disposizione per abusare del proprio fittizio potere rieducativo, per creare ampie frange di esclusione e marginalità sia all’esterno che all’interno del carcere e per esercitare tutto il proprio potere coercitivo.
Non è un caso che gli ultimi decreti sicurezza abbiano riproposto vecchi reati del passato, che erano depenalizzati da anni, e che prevedano sempre sistematicamente l’aumento delle pene, in particolare quelle detentive, come strumento repressivo principale. L’obiettivo per queste leggi, è quello di emarginare ed annichilire la persona, e il carcere da sempre è il mezzo più efficace per farlo.
In questo clima, e in questo contesto quindi, la conseguenza più immediata è che chi opera in questo microcosmo lontano da tutto e tutti si senta non solo legittimato ad abusare della propria qualifica, ma anche tutelato. Con l’ ulteriore, drammatica conseguenza, che di abusi, suicidi e omicidi in carcere, non si parla quasi mai. Che raramente si aprono processi penali a carico di appartenenti alla polizia penitenziaria e che, per omertà e coperture, molto spesso ogni accenno di indagine finisce nel vuoto con le archiviazioni delle Procure.

Tutto questo è insopportabile e deve finire. Uniti, detenuti e solidali, dobbiamo portare avanti la lotta contro le carceri, contro la tortura, contro ogni tipo di abuso, contro questo Stato che ci sta facendo affondare in un mare di merda.

Agitiamoci fuori per tenere viva la gente dentro, agitatevi dentro per contagiarvi di lotte e speranza, la solidarietà e la connessione tra le varie battaglie è la nostra arma più potente.

Acad-Onlus

Numero VERDE PER EMERGENZE 800588605
MAIL infoacad@inventati.org

Indirizzo postale: A.P.C. Radiosonar.net largo Ferruccio Mencaroni snc Roma”

L’Aquila: contributo di Nadia Lioce allo sciopero della fame di Anna e Silvia

Questo è un documento scritto da Nadia Lioce, inviato al Direttore del Carcere de L’Aquila e, per conoscenza, al Magistrato di Sorveglianza de L’Aquila e al Garante Nazionale dei detenuti, attraverso il quale comunica che il giorno 18/06/2019 ha iniziato una battitura quotidiana di 20 minuti, in solidarietà allo sciopero della fame di Anna e Silvia.
Un comunicato che con determinazione e coraggio denuncia, ancora una volta, la funzione del 41bis di annichilimento della persona e della sua dignità e del tentativo, da parte dello Stato, di estenderlo al resto delle sezioni, in particolare a quelle di Alta Sicurezza.
Lo diffondiamo condividendone l’analisi e riconoscendone la combattività e la tenacia.
Il 9 luglio, dalle 15:00, saremo davanti il carcere di L’Aquila al fianco di chi lotta.

Al Direttore del carcere de L’Aquila

per conoscenza al
– Magistrato di Sorveglianza de L’Aquila
– Garante Nazionale dei Detenuti

Da Nadia Lioce, detenuta in 41bis

Il 18 giugno 2019 alle ore 12:00 ho iniziato una battitura di venti minuti al giorno delle sbarre della finestra della camera detentiva come gesto di solidarietà e condivisione della protesta attuata con sciopero della fame dal 29/05/2019 da due detenute, anarchiche, della “sezione gialla” del carcere de L’Aquila attualmente classificata AS2 femminile.

La protesta è contro il regime del 41bis e la pressione permanente che esercita sul prigioniero, innanzitutto tramite la segregazione, e poi con tutto ciò che essa rende possibile praticare all’Amministrazione Penitenziaria in termini afflittivi/punitivi.
Pressione che, nel vantaggio politico ottenuto dal DAP con quelle sentenze della Magistratura che vanno sottraendo le misure restrittive e di azzeramento delle libertà residue dei detenuti a 41bis al controllo giurisdizionale, si sta estendendo anche a settori di alta sicurezza, quale la sezione gialla, riclassificata AS2 alla sua riapertura nel febbraio del 2018.
Una sezione decenni prima adibita ad area di isolamento del reparto femminile, poi chiuso; rimessa in funzione quando il Ministero nel 2005 decise di dislocarvi le “politiche” sottoposte a 41bis e che fu chiusa nuovamente a fine 2012, quando il 41bis femminile fu trasferito in reparto.
Essendo stata in origine area di isolamento l’attuale AS2 femminile è una sezione particolarmente angusta, vi possono essere detenute soltanto quattro prigioniere in altrettante celle, e quelle ora presenti sono vigilate da personale GOM come lo sono i detenuti in 41bis.
Infatti il tipo di segregazione a cui soggiacciono è simile a quanto prevede il regime speciale.
Diverso per numero e modalità di colloqui, telefonate e ore d’aria, non lo è affatto invece sia per esiguità di rapporti sociali, essendo presenti tutt’al più tante detenute quante costituiscono il tetto massimo del “gruppo di segregazione” con cui in 41bis dal 2009 è stata normalizzata l’ “area riservata” a suo tempo stigmatizzata dalla CEDU, sia per le misure di regolamentazione della vita quotidiana che sono in gran parte le stesse del “carcere duro”, motivo per cui alla vigilanza è deputato il GOM.
Limitazioni di stampa, pretese di censura della corrispondenza, rapporti disciplinari ad ogni sciocchezza, e tutto il resto, sono espressioni dello spirito del 41bis, di sospensione di tutti quegli ordinari diritti e facoltà del detenuto dei circuiti comune/alta sicurezza, almeno per quel tempo occorrente all’iter giudiziario di un ricorso che – eventualmente – disponga diversamente e per il quale di norma occorrono anni, non giorni, saturata com’è l’agibilità delle prime istanze giudiziarie di garanzia con la creazione da parte dell’Amministrazione di innumerevoli ragioni di reclamo, con ovvio pregiudizio dell’effettività della tutela giurisdizionale.
Anche la “sterilizzazione” del tempo trascorso insieme agli altri ai passeggi, con ciò intendendo l’impossibilità di recare con sé un libro, un giornale, un caffè, qualunque cosa che possa fare da materiale di una socializzazione concreta tra esseri umani civilizzati, è tipica della condizione di prigionia in 41bis.
Lo stato estremo di segregazione che caratterizza la vita del detenuto in 41bis, un’ipotesi – ad oggi – per sempre, è stato nella “sezione gialla” generalizzato anche alla condizione del detenuto ad alta sicurezza.
La logica segregativa e punitivo/afflittiva, volta ad esercitare una pressione costante e crescente sul nemico da sottomettere o annichilire, è uscita dalla originaria eccezionalità ed emergenzialità del 41bis che l’aveva fatta apparire plausibile a suo tempo ed è diventata dapprima perpetua e, avendo sempre rappresentato l’istanza eminentemente politica che la muove, fin dalla definizione di “carcere duro” comunemente adottata e sbandierata ma anche nelle motivazioni di deterrenza verso il referente sociale dei militanti BR e rivoluzionari prigionieri, contenute nei loro decreti di 41bis, si è insinuata nel circuito dell’alta sicurezza e perfino in quello comune, come dimostrano anche recenti proteste e addirittura rivolte provocate dalla direttiva DAP di spegnimento delle televisioni a mezzanotte che generalizza quanto dispose in merito il regolamento del DAP del 2017 per il 41bis.
Né del resto poteva essere diversamente una volta legiferato, e legittimato, che il 41bis potesse essere un trattamento perpetuo in assenza di collaborazione; implicare divieti di parlare al di fuori del gruppo di segregazione – tale diventato di fatto e di diritto – e prevedendo che chi faccia comunicare un detenuto in 41bis con “l’esterno”, a prescindere dalla “reità” del contenuto della comunicazione, sia penalmente sanzionabile.
L’ultimo tassello necessario era quello di ottenere il vantaggio di alcuni riconoscimenti giudiziari alla pretesa dell’Amministrazione di sottrarsi al controllo giurisdizionale, se esso non si adatta a restituire mera legittimazione della sua arbitrarietà, così da garantirsi, in ipotesi il regime speciale in sé dovesse decadere in generale o per il singolo, che la sua sostanza rimanga impregiudicata e faccia da modello di un ordinamento penitenziario libero da vincoli di un sistema giuridico di tipo costituzionale.
In un carcere come quello de L’Aquila che secondo la relazione del Garante dei detenuti del 2019 si pregia del primato delle sanzioni disciplinari irrogate – il 74% del totale degli undici reparti di 41bis del paese -, cioè è il carcere duro più duro di tutti, l’istituzione dell’unica sezione AS2 femminile e, prima di essa, della sezione 41bis femminile a cui furono assegnate le “politiche”, può apparire persino una scelta con un profilo anche di misoginia, aspetto che sempre integra un quadro culturale-sociale retrogrado quale quello che è invalso e si è andato strutturando in ambito penitenziario eppure in generale nel paese negli ultimi decenni. Un aspetto però eventualmente del tutto secondario rispetto al contesto più complessivo che inevitabilmente ha condotto, e va da sé continuerà a condurre, a resistenze di ogni tipo, spesso estreme per qualche verso, come lo sono le condizioni detentive a cui siamo sottoposti.
La segregazione che ci è imposta del resto attacca l’integrità della persona che sociale lo è in se stessa non circostanzialmente, ne suscita perciò una resistenza a propria difesa proporzionale al sopravvivere.
Condividere questa condizione fa sì che la resistenza di Anna e Silvia sia anche la mia come di altri detenuti e che sia interesse di ognuno che l’AS2 femminile de L’Aquila venga chiusa e venga messo termine a ciò che rappresenta.

L’Aquila, 25/06/19

28 aprile 2019 L’Aquila h13 Tolmezzo h14 Ferrara h13: contributo ai presidi alle carceri

Come Campagna Pagine contro la Tortura, abbiamo pensato di scrivere queste poche righe, non solo per mostrare il nostro appoggio e solidarietà ai presidi che si terranno in contemporanea il 28 Aprile per “spezzare quel silenzio di tomba” ma anche per offrire qualche elemento rispetto al carcere dell’Aquila come a tutte le altre carceri in cui il regime 41bis è presente.

Ormai è noto, la crisi economica e sociale può portare con sé le condizioni perché il dissenso cresca e si trasformi in qualche cosa che vada a modificare, magari ribaltandoli, gli equilibri, sempre più fragili, che stanno alla base del sistema di sfruttamento che ha portato al peggioramento delle condizioni di vita, di lavoro, e dell’ambiente.

Per questo la guerra interna è sempre più evidente : propaganda, paure e razzismo sono la ricetta che i governi vari propongono per allontanare questo “loro” incubo. E per chi non ci sta, non si sottomette, sono pronti sgomberi, licenziamenti, repressione e carcerazione, di cui il 41bis è il fiore all’occhiello e punta dell’iceberg.

Il 41bis è la summa e la sperimentazione di tutte quelle pratiche e restrizioni che servono a dividere ed indebolire l’intera società. Dal divieto della parola, della socialità, della corrispondenza, dei rapporti familiari al divieto della lettura è chiara l’intenzione e lo scopo di questo carcere: l’annientamento.

Per uscire da questo circuito si chiede la negazione della propria dignità e identità, la collaborazione e delazione. La gestione delle sezioni avviene ad opera dei GOM, reparti speciali, che, al di sopra del bene e del male, gestiscono la quotidianità dei prigionieri con l’unico obiettivo di dimostrare il loro potere e supremazia. Tutto è studiato perché prevalgano differenziazione e disgregamento dei rapporti sociali e detentivi, per imprimere lontananza da tutto e tutti, e renderti disponibile a qualunque compromesso pur di uscirne.

Dentro come fuori con un unico obiettivo.

Il 41bis, ormai anche questo è noto, nato come provvedimento emergenziale, è stato trasformato gradualmente in normalità carceraria. Ma, ancora di più, in luogo di sperimentazione, di esasperazione del carcere: lì tutto può succedere, può essere sperimentato, perché i prigionieri in 41bis, accusati di reati di mafia e/o di terrorismo, sono reietti da questa nostra bella società democratica: gli ultimi degli ultimi, colpevoli in realtà di essere una delle più evidenti manifestazione della sua contraddizione.

Ma i provvedimenti sperimentati in 41bis si ripercuotono a pioggia sul sistema carcerario nella sua complessità, non ultimo il processo in videoconferenza, e permeano le sezioni che ad esso si trovano vicini.

Quello che ci dimostra il regime del 41bis è che nel sistema carcerario vige la più totale discrezionalità, del DAP, della guardie, del direttore del carcere, di chiunque possa esercitare un minimo di potere. Quello che ci insegna il 41bis è che il sistema carcerario è brutale, niente di nuovo, e agghiacciante nella sua “logica” regolamentare e di giustificazione autoassolutoria: rimani chiuso lì dentro fino a che non ti dissoci, fino a che non collabori, tutto il resto, la privazione più totale delle condizioni minime, non ha importanza, sei un numero e lo vuoi essere. Quello che fa emergere il 41bis è che ogni comportamento vessatorio, ogni abuso possono diventare norma e consuetudine.

Questo deve essere quello che si respira nelle carceri dove esiste il 41bis e ancora di più nelle sezioni ad alta sicurezza che nascono già come circuiti dove il controllo e le regole e l’osservazione sono sicuramente più accentuate e amplificate. E sicuramente una quiete mostruosa come quella di una sezione AS2 posta all’interno di un carcere in cui il 41bis detta le regole di convivenza, è un superlativo assoluto della carcerazione, dell’isolamento, dell’osservazione e della sperimentazione.

Ma un’altra cosa abbiamo forse imparato in questi anni: il 41bis è un regime carcerario che vuole silenzio intorno a sé. Non vuole che le sue mostruosità escano. E ancora di meno ora che è risultato evidente che la sua esistenza è talmente tanto invasiva e brutale che la sua logica non può far altro che inghiottire anche la quotidianità delle altre sezioni, inasprendo, per discrezionalità, anche un circuito come quello dell’AS2.

Campagna Pagine contro la Tortura Aprile 2019

L’Aquila: memoria processuale di Nadia Lioce 24 novembre 2017

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Al Tribunale Penale de L’Aquila

La sottoscritta Nadia Lioce ha presentato opposizione al decreto penale di condanna n.29/2016 ritenendo di poter qualificare le azioni, addebitatele come di disturbo delle altre detenute, come tradizionali azioni di protesta verso l’amministrazione penitenziaria (battitura delle sbarre), e di poter argomentare come non potesse ritenere di aver arrecato un disturbo alle altre detenute, non avendo udito lamentele; né che tali azioni arrecassero un tale disturbo, essendo state storicamente accettate e/o condivise dalle detenute della sezione femminile 41 bis dell’istituto de L’Aquila, come in generale lo sono per tutti i detenuti.
Gli eventi in oggetto –di battitura delle sbarre- sono quelli del 25/08/2015, 27/08/2015, 29/08/2015, 31/08/2015, 04/09/2015 e 07/09/2015, quali segmento di una protesta durata dal 27 marzo 2015 al 30 settembre 2015, con una frequenza analoga a quella citata (documentata dalle sanzioni irrogate le cui notifiche sono state depositate agli atti), e forme identiche (battitura con bottiglietta di plastica del cancello) e durata (mezz’ora), per un totale di episodi superiore alla cinquantina, in un regime di prigionia “speciale” quale, essendo segregativo nella natura e nello scopo è ordinariamente ben poco conosciuto. Eppure per poter contestualizzare i fatti è necessario poterne distinguere le caratteristiche, per cui la sottoscritta cercherà di tratteggiarle per come si sono andate determinando storicamente, pur nella consapevolezza che il salto esistente tra la vita civile e le condizioni della prigionia speciale in particolare, complessificando la rappresentazione in parole della sua concretezza, possa non essere colmato dal proprio tentativo e lasciarne incompleta la comprensione.
Ma è tanto più necessario quanto più è rilevabile una certa ambiguità aleggiante sulle regole che attengono alla prigionia speciale, sulla quale si tornerà in seguito con degli esempi.
Il 41 bis nasce negli anni ’90, ma come antesignano ha quello che si chiamava “articolo 90”, che veniva applicato ai prigionieri politici, e non solo, ed era parte anche di una più vasta trasformazione dell’istituzione carceraria in direzione della differenziazione in più circuiti detentivi (bassa, media, alta sicurezza – politici e non) e della normalizzazione di sistemi premiali; oltre che inquadrato in ragioni politiche la cui trattazione esula da queste precisazioni.
Entrambi finalizzati a segregazione dall’esterno e controllo interno della popolazione detenuta, all’origine concepiti come regimi di prigionia speciale rispondenti ad un’emergenza, ovvero ad una situazione a termine, non strutturale – l’art. 90 fu addirittura abrogato una volta ritenuta esaurita l’emergenza rivoluzionaria – che in quelle condizioni politiche lo rendeva compatibile con i principi costituzionali.

Il 41 bis conserva –all’origine– questa giustificazione nelle forme applicative ma, non sussistendo più le condizioni politiche generali dei decenni precedenti, in se stesso può nascere per restare come forma di prigionia speciale “normalizzata”.

Almeno in una prima fase viene concretamente gestito con applicazioni di durata limitata della misura che la legge prevedeva potessero essere anche di 3 – 6 mesi e con proroghe non automatiche, e sia l’amministrazione che la giurisprudenza le concepiva revocabili; successivamente la legge aumentò la durata della singola applicazione a 1 o 2 anni e poi ancora, così che attualmente la durata della prima applicazione è imposta a 4 anni, quasi 10 volte più che all’origine, mentre le proroghe sono di un biennio e sono automatiche nella sostanza. Se fino al 2009 esisteva una teorica possibilità di revoca della misura, in sede ministeriale o giurisdizionale, in quanto l’onere di provare la sussistenza di motivi di applicazione era in capo al proponente o al decisore, con le modifiche apportate questa teorica possibilità non esiste più (che non significa che non ci sia stata più alcuna revoca da allora, ma un conto è la regola, un altro il caso particolare).[1]

Precedentemente la detenzione speciale consisteva nella separazione delle sezioni o dei reparti di 41 bis da quelli ordinari (comuni, A.S., EIVC); nella limitazione dei rapporti con l’esterno ai colloqui con il vetro con familiari entro il 3° grado per una o due volte al mese decise dal ministero oppure dal tribunale di sorveglianza territoriale in sede di reclamo, quando la competenza a decidere dei reclami al 41 bis era dei tribunali di sorveglianza locali; limitazioni dei “pacchi” di vestiario e cibi mensili a 2 per 10 kg totali; limitazione delle telefonate a 1 o 2 a familiari (che per riceverla devono recarsi al carcere). Per quanto riguarda la limitazione dei rapporti all’interno essa consisteva: nella frequentazione di 2 ore di passeggi e 2 ore di saletta in gruppi formati al massimo da cinque persone.
Per dare un termine di comparazione rispetto all’antesignano: l’art. 90 non prevedeva suddivisioni in gruppi, cioè i “gruppi” non esistevano, “l’aria” (o passeggi) era frequentata dalla sezione nel suo complesso; (“la socialità” forse al tempo non esisteva).

Rispetto agli altri circuiti detentivi: tutti i circuiti prevedono che l’aria sia a frequentazione comune, di tutta la sezione o di tutto il reparto. Non tutti i reparti utilizzano sale per la socialità che perciò può essere fatta nelle celle in un numero limitato di persone scelte dal detenuto volta per volta.

I detenuti comuni usufruiscono di sei ore mensili di colloquio con un arco più esteso di familiari, quelli in alta sicurezza o del fu EIVC, di quattro ore.

Tutti i detenuti di bassa, media e alta sicurezza possono fare una telefonata settimanale di dieci minuti ai familiari.

Il 41 bis prevede inoltre in tutti i casi la censura della corrispondenza che il censore operativo esamina, ed eventualmente sottopone al giudice competente, per la decisione dell’inoltro o meno. Una misura applicabile anche a detenuti non in 41 bis, in genere a quelli in A.S.

Tutto il resto del trattamento in teoria non avrebbe ragione di differire.

Cioè: si potrebbe erroneamente pensare che le altre condizioni di prigionia di detenuti ordinari e in 41 bis, possano essere le stesse.

In realtà non è mai stato così.

Innanzitutto perché la legge nel definire “le misure eccezionali” rispetto all’ordinamento non ha mai citato limiti minimi, con cui di norma si asseriscono le condizioni garantite per ogni condizione della prigionia, ma solo massimi.

Ad esempio: le ore di colloquio, di aria, di saletta, i chilogrammi e il numero dei pacchi, i capi di vestiario e i generi alimentari e di conforto detenibili in cella… sono tutti limiti non superabili. Le ore all’aperto – una all’aria, l’altra in saletta – sono “non superiori a due”.

Cioè, mai condizioni garantite, proprio perché è stato un regime concepito come una eccezione (e lo è) rispetto ad una normalità.

Poi perché il decreto riserva al vertice dell’amministrazione ulteriori specifiche disposizioni, individualizzate e non, sicché tutto il resto può anche differire totalmente e ulteriori compressioni delle libertà residue ed estensioni delle restrizioni possono colpire ogni aspetto della vita quotidiana, che sia per iniziativa del Dipartimento o per iniziativa locale, di interpretazione delle direttive, o di propositività di iniziativa.

Infine perché addetti alla custodia dei detenuti al 41 bis sono i G.O.M., cioè un corpo speciale di polizia penitenziaria, forse introdotto nel 1998 e dal 2009 obbligatoriamente nei reparti di 41 bis, che consiste in una sorta di polizia penitenziaria militarizzata -finora informalmente- centrata su compiti di contrasto e in grado di praticare questo genere di direttive.
Questa serie di peculiarità incidono su tutti gli aspetti della vita quotidiana: da quello delle disponibilità materiali – detenibilità di materiali in cella, dal vestiario, al cartaceo, a generi alimentari e di conforto o per l’igiene ambientale, o degli oggetti personali; a quello dell’accessibilità all’acquisto di prodotti non inclusi nella lista dei generi acquistabili di “sopravvitto”; a quello delle modalità e frequenza di svolgimento delle perquisizioni personali o della cella.
Ognuno di questi aspetti delle necessità, condizioni e disponibilità personali può essere investito, e concretamente lo è stato e lo è, da un regime ulteriormente restrittivo, quando in modo “regolamentato” quando nella pratica provocatoria e nella finalità vessatoria che voglia essere messa in atto ad arbitrio, incidendo in modo significativo sulla vivibilità quotidiana della prigionia, con una tendenza dominante alla generalizzazione delle condizioni più restrittive e privative, per un principio di cosiddetta uguaglianza.

A tutto ciò va aggiunto che, con le modifiche legislative introdotte nel 2009, la logica giuridica generale che sopravviveva alla base del 41 bis originario viene rovesciata e viene sancita una sostanziale e permanente esternità “spaziale” del regime speciale all’ordinamento giuridico generale, che subentra alla eccezionalità e al suo carattere per così dire temporale.

Innanzitutto, appunto, esso, da misura almeno in teoria circoscritta nel tempo, diventa strutturale per un tipo di persone, cioè per coloro ai quali fosse stata applicata dal ministero.

L’inversione giuridica attraverso la quale può concretamente succedere è il trasferimento dell’onere della motivazione. Da questo momento quella che andrà motivata, di fatto, non è più la proroga della misura, ma la sua revoca. Dunque l’onere viene trasferito dal proponente o decisore al detenuto in 41 bis, che deve dimostrare: o che c’è stato uno scambio di persona, che cioè non è lui la persona che il Ministero vuole assoggettare alla misura, oppure di essere un collaboratore, cioè non il tipo di persona cui la misura è destinata.
Per un prigioniero che si è assunto le sue responsabilità verso un referente politico – l’organizzazione rivoluzionaria d’appartenenza – e sociale – la classe a cui ha rivolto la proposta rivoluzionaria – è cioè una esplicita richiesta di abiura politica che, di fatto, in se stessa abolisce il diaframma giuridico ordinariamente interposto dallo stato nel rapporto col prigioniero politico e politicizza il rapporto stesso, facendo diventare il regime di prigionia speciale uno specifico piano di confronto. Confronto nel quale, in sostanza e in generale, l’interesse del prigioniero ad una prigionia “normale”, non segregata, viene usato contro lui stesso, ossia come leva per ottenere la collaborazione, praticamente in modo esplicito.

E, a corroborare la coercitività del regime speciale ai fini della torsione della volontà degli assoggettati ad esso, viene allargato lo spettro delle misure restrittive fino a quel momento adottate e vengono intensificate quelle già esistenti, in parte con la legge stessa, in altra parte tramite ordinanze e circolari dell’amministrazione centrale o locale.

La sottoscritta approfondirà ora le condizioni particolari del regime di 41 bis in cui si sono collocati i fatti in oggetto, specificando cosa siano i gruppi, partendo da quello che sono diventati.
La legge del 2009 restringe i “gruppi”: da 5 componenti – al massimo – li riduce a 4.

Inoltre, essa dispone che le carceri per 41 bis siano distinte dalle altre, allocate nelle isole e, mentre il Ministero stabilisce la costruzione di apposite strutture carcerarie con sezioni “monogruppo”, la legge dispone anche che le strutture carcerarie adibite al regime di 41 bis, in generale siano attrezzate logisticamente per assicurare che i movimenti degli appartenenti a un gruppo avvengano precludendo la comunicazione con appartenenti a gruppi diversi dal proprio (la qual cosa in una sezione “plurigruppo” – come quella dei fatti in oggetto – avviene con l’accostamento dei “blindati” delle celle, da parte del personale penitenziario, durante il passaggio nel corridoio di un detenuto), in quanto stabilisce anche il divieto di comunicare tra appartenenti a gruppi diversi (comunicazione che sarebbe fisicamente possibile nelle sezioni “plurigruppo”)[2].

Con questa ulteriore stretta segregativa è avvenuto che i “gruppi” non siano più stati delimitazioni circoscritte alla frequentazione di passeggi e saletta per una funzione di controllo interno, ma siano diventati “esclusivi”.

E’ avvenuto cioè uno slittamento sostanziale dei paradigmi alla base della legge originaria che già – rispetto all’art. 90- introduceva delimitazioni alla frequentazione comune di aria e socialità, rispetto alle condizioni degli altri circuiti detentivi.

Un’evoluzione della normalizzazione dell’eccezione per il tramite della torsione giuridica, che sembra giungere a un momento di inversione del senso giuridico particolare della prigionia speciale, sancendone una ambigua ma strutturata e strutturale esternità ad un contesto regolamentare sistematico.

In pratica, con questo slittamento, i “gruppi” diventano “gruppi di segregazione” che escludono tutti gli altri.

Prima erano limitati ad un’aggregazione di 5 persone, per un’asserita garanzia di controllo, ora la vita in ogni sua espressione, anche verbale, non deve fuoriuscire dal gruppo di assegnazione (ridotto ad un massimo di 4 persone).

Non un “buongiorno” può essere scambiato.

Così come effettivamente disposto dalla direzione dell’istituto de L’Aquila in data 6 novembre 2016. Un divieto di scambio di saluto tra detenuti presenti all’interno di una medesima sezione, che in concreto interruppe questa sopravvissuta tradizione e che è una delle espressioni, materializzate, di quella ambiguità aleggiante sulle regole del 41 bis, che si genera tra disposizioni di legge già citate, disposizioni del decreto di 41 bis, apparentemente a raggio di azione circoscritto[3]; e contenuti di giurisprudenza costituzionale (esempio: sent. C.Cost. 122/2017) che, dagli asseriti legittimi limiti alla comunicazione dei detenuti appare escludere, e con un argomento pesante quale quello dell’inviolabilità della persona, la possibilità di precludere comunicazioni tra detenuti compresenti in una sezione, in quanto argomenta di limitazioni alla facoltà dei detenuti di intrattenere colloqui diretti con persone esterne all’ambiente carcerario[4].

Uno slittamento che pare essere potuto avvenire in una condizione generale formata da una reiterazione di rappresentazioni pubbliche del carcere come un “santuario”, ovvero luogo in cui chi vi si trovi è invulnerabile, incontrollabile e incoercibile, opposte alla realtà della prigione, in cui le libertà sono a priori residue, e chi vi è rinchiuso è “coatto”, che hanno sollecitato un’aspettativa pubblica giustificante le scelte politiche alla base della legiferazione.
In ogni caso, ricostruendo gli avvenimenti, “la parola” segregata fu in realtà introdotta già da una circolare ministeriale nell’agosto 2008, cioè circa 10 anni fa, plausibilmente come sperimentazione della successiva introduzione legislativa.

La “parola”, ovvero quella facoltà innata del genere umano che storicamente presso un po’ tutte le civiltà ne tipicizza la dignità rispetto alle altre specie animali, viene criminalizzata in se stessa. Verso il detenuto in 41 bis che non si auto inibisse, lo è dal 2008 in poi con la sanzione disciplinare, sebbene non prevista come indisciplina specifica dall’ordinamento penitenziario né dal regolamento di esecuzione almeno fino al settembre 2017, ma, si presume, suscettibile di sanzione in quanto inosservanza di un ordine. Ma verso chiunque altro “consentisse” al detenuto in 41 bis di “comunicare” con “l’esterno” (presumibilmente anche del gruppo) -dal personale penitenziario, all’avvocato, al familiare, a chiunque solidarizzi- la previsione legislativa del 2009 è l’incriminazione penale. E tenuto conto che “verba volant”, che significa che le parole non hanno consistenza materiale, né in se stesse potenzialità di effetti materiali, intorno a questa criminalizzazione è venuto a formarsi un grumo antigiuridico potenzialmente ad alto tasso di criminogenità, potendo chiunque essere accusato di qualunque cosa[5].

Questa innovazione legislativa, insieme a quella che andava a creare un regime speciale per il diritto di difesa del detenuto in 41 bis limitandone le ore di colloquio e la durata delle telefonate (negli anni arrivate alla consulta e dichiarate incostituzionali) e insieme centralizzazione presso un unico Tribunale di Sorveglianza – quello territoriale del Ministero decretante la misura- dei reclami contro i decreti di 41 bis, andarono ad integrare il nuovo paradigma del “carcere duro”. Un paradigma la cui specificità rispetto al precedente è la capacità di proiezione di conseguenze a largo raggio, molto oltre l’ambito dei suoi “ristretti” o dell’intera popolazione detenuta, venendo ad incidere sul ruolo e sull’operatività di tutta la Magistratura di Sorveglianza.

Conseguenze al confronto delle quali le tendenze all’inibizione della parola non solo conversazionale, ma pure funzionale[6] sono solo una deriva parossistica localizzata dentro le mura del 41 bis.

A questo punto è necessario accennare alla specificità della componente femminile della popolazione detenuta a 41 bis.

La specificità della sezione 41 bis femminile dell’Aquila è quella di essere stata istituita da zero. Cioè scegliendo: ubicazione geografica e strutturale, personale assegnato e sua formazione, e il trattamento a cui sottoporre le “politiche” per cui è nata. E ciò potendo contare sul fatto che le prigioniere sottoposte alla misura non avessero un’esperienza pregressa, nemmeno storica, del 41 bis (misura che viene previsto possa essere applicata anche ai politici nel 2002). Inoltre, la mancanza di una loro coesione per ragioni di forza maggiore, ha reso più praticabile un trattamento di “massimo rigore”.

Col passare degli anni, e radicato l’insediamento e le sue caratteristiche di fondo, la particolarità è stata essenzialmente quella di essere poche.

Ma è necessario fare un passo indietro.

Fino al 2005, la sezione 41 bis femminile era quella di Rebibbia, a Roma, dove le restrizioni applicate erano quelle di legge e generali, e il personale penitenziario era ordinario.

Quella sezione nel 2009 chiuse.

In quella aquilana, aperta nell’ottobre 2005, per applicare il “massimo rigore” fu adottato l’espediente di elaborare ed affiggere nella saletta della sezione un regolamento apposito per la sezione, che voleva dare l’impressione che, data la peculiarità di genere della sezione, essendo femminile in un carcere esclusivamente maschile, ne servisse uno apposta, altrimenti esisteva un regolamento di istituto che era vigente a tutti gli effetti.

In realtà, quando nel 2006 fu chiesto di poter acquisire il regolamento d’istituto –tutti gli istituti devono averne uno – non fu opposto un diniego, non sarebbe stato giustificabile, ma fu affissa una copia del regolamento mancante di alcune pagine iniziali e anche al suo interno. Se ne dovette perciò reclamare l’affissione nella sua interezza al Magistrato di sorveglianza. E infatti così fu fatto quando il magistrato lo ordinò.

Allora si poté scoprire che, quelle mancanti, erano pagine concernenti modalità di perquisizione personale, quantità e generi alimentari, di vestiario e altro, detenibili in cella. Ambiti in cui la prassi nella sezione femminile non osservava il regolamento a scapito delle detenute, fino a quel momento ancora poco esperte.

La sottoscritta farà alcuni esempio pratici: le “perquisizioni personali con denudamento” venivano fatte con denudamento integrale nonostante il regolamento d’istituto prescrivesse che il detenuto restasse con gli indumenti intimi.

Un altro esempio: il regolamento d’istituto prevedeva che in cella si potessero detenere 10 pacchetti di sigarette. Quello di sezione non contemplava l’argomento, sicché la quantità detenibile veniva comunicata oralmente. Diventarono 8, poi 6, poi 4. E il momento della decisione di ridurre da 8 a 6 ecc. era quello in cui nel corso della perquisizione della cella, a quel tempo settimanale, se ne trovavano 7, poi 5 e così via.

Alla detenuta veniva contestata la detenzione di un “eccesso”, alla previsa e scontata rimostranza, la prima volta c’era l’avvertimento, la seconda il rapporto disciplinare. E così per ogni variazione in senso restrittivo che potesse/volesse essere inventata.

A quel tempo, fino a tutto il 2009, era un metodo, poi è diventato periodico, mentre, più in generale, anche sui generi detenibili in cella il dipartimento ha sussunto molte delle potestà prima in capo, almeno formalmente, ai direttori.

Come detto, la particolarità della sezione femminile 41 bis è ora in buona parte dovuta alla scarsità di detenute, un dato di fatto che di per sé si traduce in una pressione più elevata, e che consente di gestire la frequentazione alternata dei comuni passeggi e della saletta, anche formando “gruppi” di due persone.

E poiché come prima opzione l’amministrazione privilegia la composizione di gruppi di numero minimo di persone, i “gruppi”, salvo cause di forza maggiore, sono sempre di due donne.
I gruppi di due persone nella vita civile si chiamano coppie. Anche in carcere, tempo fa, la definizione di “gruppo”, almeno nelle controversie insorte tra amministrazione, detenuti e magistratura, rispettava il senso comune. Il gruppo, cioè, era costituito da un minimo di 3 persone.
I gruppi di 2-3 persone, inoltre, erano limitati alle “aree riservate”, cosi dette perché braccetti separati “monogruppo”, isolati dagli altri e con un trattamento più duro, fino al 2009 presenti in poche unità per carcere ove fossero ubicate.

Trovate forme di legittimazione, di fatto con la legge del 2009, “l’area riservata” è diventata il modulo segregativo della popolazione detenuta al 41 bis. E anche in questo senso, la sezione femminile, che dall’apertura della sezione de L’Aquila è sempre stata un’area riservata per un massimo di 4 detenute – fino al 2013 – si è ritrovata ad essere il “benchmark” ed infine “la nuova normalità”.

Come si può intuire, i mini gruppi di 2 persone sono la composizione a massimo condizionamento reciproco.

Ad esempio offrono la possibilità con una sanzione di erogarne informalmente 2.

È quello che sarebbe successo alla sventurata detenuta che fosse capitata nel gruppo con la sottoscritta, anche dall’aprile 2015 all’ottobre 2017, quando avrebbe dovuto restare sola al passo delle sanzioni scontate dalla sottoscritta per la protesta effettuata dei fatti di un segmento della quale qui si discute.

E invece non è successo perché la sottoscritta, anche per senso di responsabilità verso le altre detenute, all’atto del trasferimento in una sezione più grande in grado di custodire ulteriori detenute sopravvenute, ha scelto di non condividere gruppi con nessuna, ovvero dal gennaio 2013 a tutt’oggi.

In parole povere, composizioni di gruppi minimali sono una condizione che genera isolamenti in se stessa perché l’unico altro componente resta solo in casi di: sanzione, malattia, colloquio, udienza, o semplice, legittima, mancanza di volontà di uscire dalla cella, o di svolgere le medesime attività durante l’ora d’aria o di saletta, dell’altro.

Tutte condizioni concretamente verificatesi centinaia di volte dal 2005, da quando cioè L’Aquila aprì la sezione femminile per “le politiche”.

Dopodiché l’essere umano è per sua natura sociale, cioè lo è sia interiormente che nelle sue interazioni, non lo è solo circostanzialmente, perciò le circostanze sono ciò con cui potenzialità e istanze si misurano e con cui le persone possono maturare, anzi tanto più possono aspirare a migliorarsi, quanto più difficili fossero le circostanze che si presentassero.
La sottoscritta, non potendo sapere quale sia l’idea dei presenti sulle comunicazioni nelle sezioni 41 bis, immaginando che non fossero note né le circostanze derivanti dalla propria condizione di “solitudine” e dunque di preclusione assoluta delle comunicazioni con altre detenute, né che – tra le altre cose – all’epoca dei fatti la sottoscritta avesse conosciuto soltanto due delle altre sei detenute presenti nella sezione femminile in quanto già a L’Aquila dal 2010 – 2011, e infine immaginando che possa essere ritenuto – erroneamente – che una situazione del genere, contrastando con un principio di inviolabilità della persona, non possa verificarsi in questo paese, ha preferito dilungarsi a illustrare le condizioni d’esistenza proprie e delle altre detenute, nel regime di prigionia di 41 bis, prima di entrare nel merito di quanto in oggetto.

Perché in questo contesto di inibizione delle comunicazioni sociali nello spazio comune della sezione in cui i suoni fisicamente si trasmettono, che la sottoscritta non ha proprio avuto modo di sapere/capire di aver arrecato un concreto disturbo ad altre detenute.

  1. Perché battiture delle sbarre sono sempre state fatte collettivamente, e non, per periodi di mesi e anche di anni e per più volte al giorno ognuna di 10-15 minuti, la qual cosa autorizzava a ritenere che ce ne fosse una pacifica accettazione.
  2. Poiché la sottoscritta mentre faceva la battitura leggeva, come del resto facevano altre detenute in occasione di altre battiture, cioè la battitura era compatibile con altre attività, o, quando non lo fosse stata, ad es. durante la somministrazione di terapie farmacologiche, la sottoscritta, su richiesta, la interrompeva.
  3. Perché la sottoscritta non ha mai sentito nessuna lamentarsi né avrebbe potuto sapere di una lagnanza per comunicazione da qualche detenuta la cui quiete fosse stata disturbata, a causa del divieto di parlarsi di cui sopra, come asserito invece da terzi, interessati perché destinatari della protesta.
  4. Perché quando la sottoscritta ha letto le contestazioni dei rapporti del 25 e del 27 agosto 2015, recitanti: “dopo la perquisizione ordinaria effettuata nella propria camera detentiva, nonostante non le fosse contestato nulla, lei iniziava a battere con una bottiglia di plastica contro il cancello della sua cella, provocando le lamentele esasperate della restante popolazione detenuta. Per quanto sopra, le si contesta l’infrazione prevista dall’art. 77 punti 4 (atteggiamenti e comportamenti molesti nei confronti della comunità), 19 (promozione di disordini o di sommosse), 21 (fatti previsti dalla legge come reato commessi in danno di compagni, di operatori penitenziari, di visitatori)”, la sottoscritta, non avendo udito lamentele esasperate dalla restante popolazione detenuta, non gli ha attribuito rilievo, se non ai fini di ipotizzare una volontà dell’amministrazione di applicarle anche il regime di 14 bis (ipotesi confermata dagli atti depositati in quanto richiesta fatta da un responsabile GOM), per l’inverosimiglianza degli addebiti (punto 19) nella situazione concreta, oltre che per un’illinearità di interpretazione del “fatto battitura” che si ripeteva dal 24 marzo 2015 almeno due volte alla settimana – in occasione cioè delle perquisizioni della sua camera detentiva (a seguito della originaria perquisizione nella quale ne venne asportato materiale cartaceo, corrispondenza e atti giudiziari) e che sono terminate il 30 settembre 2015 a seguito della restituzione di gran parte del materiale, con le stesse identiche forme e durate, e per l’incoerenza tra gli addebiti al punto 19 e 21.

Oltretutto le sanzioni anche del 26 e del 30 settembre, sono per le infrazioni al punto 4 e 21, ma delle quali, dopo due anni, non si ha notizia di denuncia. Né se ne ha di denunce o di decreti emessi da codesto Tribunale penale per un reato di oltraggio a pubblico ufficiale come asserito a pag. 11 del decreto di proroga del regime speciale, notificato alla sottoscritta il 6 settembre 2017, e che si allega agli atti.

Nadia Lioce

[1] La legge sulla sicurezza del luglio 2009 sostituisce l’articolo 41 bis con un nuovo testo, e nel nuovo viene escluso che il “mero decorso del tempo” costituisca “di per sé” elemento sufficiente per escludere la capacità di mantenere i collegamenti con l’associazione o dimostrare il venir meno della operatività della stessa.

[2] La legge sulla sicurezza del luglio 2009, già citata, apporta modifiche all’art. 41 bis co. 2 quater lett. F, aggiungendovi: “saranno inoltre adottate tutte le necessarie misure di sicurezza anche attraverso accorgimenti di natura logistica sui locali di detenzione volte a garantire che sia assicurata la assoluta impossibilità di comunicare tra detenuti appartenenti a diversi gruppi di socialità, scambiare oggetti e cuocere cibi”.

[3] A pag. 17 del decreto di proroga del regime di 41 bis alla sottoscritta del 06/09/2017, all’art. 2: “Il direttore dell’istituto di pena, ove l’anzidetta detenuta è ristretta, adotterà le misure di elevata sicurezza interna ed esterna, anche attraverso accorgimenti di natura logistica sui locali di detenzione necessarie a prevenire contatti con l’organizzazione criminale di appartenenza o di attuale riferimento, contrasti con elementi di sodalizi contrapposti, interazione con altre detenute appartenenti alla medesima associazione ovvero ad altre ad essa alleate, secondo le disposizione dell’amministrazione penitenziaria”.

[4] Sent. 122/2017 C.Cost del 08/02/2017 pag.11 “… non può che essere ribadito il costante orientamento della giurisprudenza di questa Corte, secondo il quale la legittima restrizione della libertà personale, cui è sottoposta la persona detenuta, non annulla affatto la tutela costituzionale dei diritti fondamentali. Chi si trova in stato di detenzione, pur privato della maggior parte della sua libertà, ne conserva sempre un residuo, che è tanto più prezioso in quanto costituisce l’ultimo ambito nel quale può espandersi la sua libertà individuale (sentenze n. 20 del 2017 e n. 349 del 1993), e il cui esercizio, proprio per questo, non può essere rimesso alla discrezionalità dell’autorità amministrativa preposta all’esecuzione della pena detentiva (sentenze n. 26 del 1999 e n. 212 del 1997).

La tutela dei diritti costituzionali del detenuto opera, pur tuttavia, «con le limitazioni che, come è ovvio, lo stato di detenzione necessariamente comporta» (sentenza n. 349 del 1993).

La legittima restrizione della libertà personale cui il detenuto è soggetto, e che trova alla sua base un provvedimento giurisdizionale, si riverbera inevitabilmente, in modo più o meno significativo, sulle modalità di esercizio delle altre libertà costituzionalmente alla prima collegate. Ciò avviene anche per la libertà di comunicazione, la quale, nel corrente apprezzamento, rappresenta – al pari della libertà di domicilio (art. 14 Cost.) – una integrazione e una precisazione del fondamentale principio di inviolabilità della persona, sancito dall’art. 13 Cost., in quanto espressione della “socialità” dell’essere umano, ossia della sua naturale aspirazione a collegarsi spiritualmente con i propri simili.

È evidente, così, che lo stato di detenzione incide in senso limitativo sulla facoltà del detenuto di intrattenere colloqui diretti con persone esterne all’ambiente carcerario: colloqui che, quali comunicazioni tra presenti, ricadono certamente nella sfera di protezione dell’art. 15 Cost. Di necessità, i colloqui personali dei detenuti «sono soggetti a contingentamenti e regolazioni da parte dell’ordinamento penitenziario» (artt. 18 ord. pen. e 37 reg. esec.) (sentenza n. 20 del 2017) ed è l’autorità penitenziaria che, in concreto, stabilisce (in particolare, tramite il regolamento interno dell’istituto: art. 36, comma 2, lettera f, reg. esec.) i luoghi, i giorni e gli orari del loro svolgimento, senza che in ciò possa scorgersi alcuna violazione della norma costituzionale evocata”.

[5] La legge sulla sicurezza, già citata in nota 2:

“Nel libro II titolo III capo II del codice penale dopo l’art. 391 è inserito il seguente:
Articolo 391 bis (agevolazione ai detenuti e internati sottoposti a particolari restrizioni delle regole di trattamento e degli istituti previsti dall’ordinamento penitenziario) Chiunque consenta a un detenuto, sottoposto alle restrizioni di cui all’articolo 41 bis della Legge 26 luglio 1975 n. 354, di comunicare con altri in elusione delle prescrizioni all’uopo imposte è punito con la reclusione da uno a quattro anni.

Se il fatto è commesso da un pubblico ufficiale, da un incaricato di pubblico servizio ovvero da un soggetto che esercita la professione forense si applica la pena della reclusione da due a cinque anni”.

[6] Il riferimento è al tentativo – in pochi giorni rinunciato – risalente al giorno successivo alla visita del garante nazionale dei detenuti, che avvenne il 05/05/2017, di vietare lo scambio verbale funzionale tra detenute e “portavitto”, ossia la lavorante nell’esercizio della sua funzione.

 

Solidarietà con Nadia Lioce, a fianco di chi lotta dentro le galere, contro il 41bis

SOLIDARIETÀ CON NADIA LIOCE

A FIANCO DI CHI LOTTA DENTRO LE GALERE

CONTRO IL 41BIS

Sono passati 14 anni da quando la compagna Nadia è rinchiusa all’interno delle sezioni a regime di 41bis.

Il 24 novembre a L’Aquila ci sarà la terza udienza che la vede sotto processo per aver osato dimostrare, tramite una battitura, di non essere stata ridotta al totale silenzio dalla vendetta dello stato. Le persone rinchiuse all’interno del circuito del 41bis non hanno la possibilità di far uscire la loro voce, rendendo pubbliche le condizioni vessatorie quotidianamente vissute sui propri corpi e le proprie menti. Questo processo ci racconta di una protesta fatta a seguito dell’applicazione della circolare del DAP del 2011 che impediva, ai detenuti e le detenute in 41bis, di ricevere libri tramite posta e colloqui. Vincola l’acquisto esclusivamente attraverso l’ufficio preposto dal carcere. La suddetta circolare è stata legittimata, dopo diversi iter processuali, dalla sentenza della cassazione e definitivamente sancita dalla Corte Costituzionale l’ 8 febbraio 2017 http://www.giurcost.org/decisioni/2017/0122s-17.html

Nel 2015 ha avuto inizio la campagna “Pagine contro la tortura” all’interno dei percorsi contro il carcere e dei ragionamenti che ne seguono aprendo ulteriormente una finestra su quello che è il “carcere speciale” come dispositivo punitivo chiaramente in relazione ai cambiamenti sociali.

L’impostazione di questo regime detentivo prevede:

– isolamento per 23 ore al giorno. L’ora d’aria prevede un massimo di 4 detenuti (la scarsa socialità è combinata scientificamente in base ai criteri dalla Direzione guidata dal DAP attraverso DNA, DIGOS, GOM, DIA…);

– colloquio con i soli familiari diretti (un’ora al mese) che impedisce per mezzo di vetri, telecamere e citofoni ogni contatto diretto;

– una telefonata al mese solo nel caso in cui non si sia effettuato il colloquio. Il parente stretto è la sola persona con la quale può entrare in comunicazione. La chiamata può essere effettuata esclusivamente dall’interno di un carcere;

– esclusione a priori dall’accesso ai “benefici” previsti dalla Legge Gozzini;

– impiego dei Gruppi Operativi Mobili (GOM), il gruppo speciale della polizia penitenziaria, tristemente conosciuto per i pestaggi nelle carceri e per i massacri compiuti a Genova nel 2001;

http://www.bv.ipzs.it/bv-pdf/003/MOD-BP-17-071-157_2254_1.pdf

– “processo in videoconferenza”: l’imputato/a detenuto/a segue il processo da solo/a in una cella attrezzata del carcere, tramite un collegamento video gestito a discrezione di giudici, p.m., forze dell’ordine, quindi privato/a della possibilità di essere in aula;

– la censura, taglio e selezione nella consegna di posta, stampe, libri.

Con la legge Gozzini dell’86 viene introdotto il 41bis, per guidare in un primo tempo il sistema punitivo e disciplinare da adottare in ogni carcere. Nell’estate del 1992 a seguito della morte di Falcone e Borsellino all’interno dello scontro tra gli apparati dello stato, il 41bis è diventato la punta di diamante del sistema repressivo carcerario. Dal ‘92 a oggi, questo regime è stato modificato e inasprito, esteso e omogeneizzato e normato come legge. Per esempio, prolungandone l’applicazione, inizialmente prevista nella misura di 3 fino a 6 mesi e con proroghe non automatiche bensì revocabili come rinnovabili, mentre a oggi si applica in prima istanza per 4 anni ed è la persona ristretta a dover dimostrare che non sussistono più motivi per la proroga: dimostrando di essere estraneo ai fatti, o collaborando.

È in questo modo che le leggi e le norme di natura emergenziale permangono e col passare del tempo, si estendono: ogni restrizione adottata nelle sezioni a 41bis prima o poi, con nomi e forme diverse, penetra nelle sezioni di Alta Sicurezza e in quelle “comuni”, e non solo. Un esempio tra tanti è quanto avvenuto ai processi in video conferenza, a oggi estesi anche ad altri circuiti penitenziari e alla trattazione delle commissioni territoriali per le richieste di protezione umanitaria delle persone immigrate.

Inoltre con l’ultima circolare D.A.P del 2 ottobre 2017 (http://www.ristretti.it/commenti/2017/ottobre/pdf/circolare_41bis.pdf)  si è sancita  l’omologazione del trattamento di tutte le persone detenute in regime di 41bis oltre che rafforzarlo e legittimarlo. Nello specifico la quotidianità dei detenuti in 41bis viene programmata in modo totalizzante, citiamo solo alcuni stralci tratti dalla circolare:

assicurare un’attenta attività di osservazione al fine di studiare e analizzare dinamiche dei gruppi e apportare le dovute modifiche con l’obiettivo di impedire tentativi di “avvicinamento” e/o “condivisione” di interessi tra consorterie mafiose espressione di differenti provenienze territoriali, evitando di formare gruppi di socialità “aggregati” e comunque coesi”.

Gli apparati statali repressivi continuano a presentare questo circuito identificando, chi è lì prigioniero, esclusivamente come boss mafioso per ridurre la popolazione carceraria e ricondurla ad un evidente fine di demagogica strumentalizzazione sulla cosiddetta “opinione pubblica”. In realtà, come applicato per la compagna Nadia, il secondo comma della L. 279/2002 estende il regime del cosiddetto “carcere duro” anche ai soggetti imputati o condannati per reati diversi da quelli dell’associazione di stampo mafioso. Tra i reati interessati a questa estensione anche quelli “commessi per finalità di terrorismo, anche internazionale, o di eversione dell’ordinamento democratico, mediante il compimento di atti di violenza”.

 L’estensione del 41bis agli altri circuiti è resa evidente per esempio dalla scrupolosa osservazione alla base del dispositivo di isolamento messo in atto all’interno di questi circuiti. Nei circuiti di AS, per esempio, vige questo meccanismo, con la differenza che all’interno vengono rinchiusi soggetti che si ritenga abbiano una stessa matrice politica o…criminologica.

Il prestigio di un carcere è acquisito in maniera sempre più decisa sulla base della sicurezza e non del paravento della “rieducazione”; il fine principe, ripetiamo, è la volontà di ottenere “collaborazione” attraverso la tortura quotidiana.

Il carcere ha plurime funzioni tra cui quella di essere monito per chi decide, per condizione o volontà, di non attenersi ai paradigmi di legalità nonché quella di disciplinare, restituendo alla società esterna soggetti ammansiti e rassegnati.

La strategia del “divide et impera”, attuata con la differenziazione dei circuiti carcerari, è utile a frammentare e prevenire la solidarietà così come avviene nel mondo del lavoro e in quei tanti ambiti della società  in cui tale sistema si concretizza nella “guerra tra poveri”.

Alla luce di ciò, riteniamo che il regime 41bis non sia separato dal resto del carcere né dall’intero progetto politico di ristrutturazione della società.

Per questo lottare contro il 41bis significa lottare contro tutto il sistema carcerario e non solo.

Il 24 novembre alle ore 9.00 si celebrerà, presso il Tribunale ordinario di L’Aquila in Via XX settembre n. 68, il processo a Nadia Lioce.

Noi quel giorno saremo lì in presidio,
in solidarietà con Nadia e con il suo grido di dignità.

A seguito ci sposteremo davanti al carcere per portare un saluto ai detenuti e alle detenute. Campagna “Pagine contro la tortura”