Processo in videoconferenza

Premessa

Il processo in videoconferenza o “a distanza” è stato introdotto con la legge nr.11, nel gennaio 1998:

Disciplina della partecipazione al procedimento penale a distanza e dell’esame del dibattimento dei collaboratori di giustizia, nonché modifica della competenza sui reclami in tema di articolo 41bis dell’ordinamento penitenziario. … (stabilisce che)

1– […] la partecipazione al dibattimento avviene a distanza nei seguenti casi:

  1. qualora sussistano gravi ragioni di sicurezza e ordine pubblico,
  2. qualora il dibattimento sia di particolare complessità e la partecipazione a distanza risulti necessaria ad evitare ritardi nel suo svolgimento,
  3. qualora si tratti di detenuto nei cui confronti è stata disposta l’applicazione delle misure di cui all’ articolo 41bis […sott. ns.],

cioè: di persone condannate, ma anche solo accusate, per i “reati” di: sequestro di persona; “associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti”…; e “associazione di stampo mafioso”.

Quella “partecipazione” imposta, verrà estesa con la legge 374 dell’ottobre 2001 (Disposizioni urgenti per contrastare il terrorismo internazionale) anche ai “reati di terrorismo”.

Da scritti e lettere di chi ci è passato in mezzo

Qui dove “vivo” attualmente, la sezione e quasi tutti i reparti sono composti da detenuti ergastolani o con lunghe pene: oltre il 40% ha vissuto per più di un decennio in regime di 41bis, per cui hanno e abbiamo titolo per parlare di tale regime e di videoconferenza… Dal 1997-98, tutti i detenuti sottoposti al regime di 41bis non hanno più potuto partecipare ai processi se non tramite videoconferenza. I margini di difesa sono così ridotti che la difesa processuale è una farsa, e difatti molte condanne sono avvenute senza una minima difesa reale. Da quest’anno, la videoconferenza è stata estesa anche a tutti i detenuti sottoposti al regime del 416bis (Alta Sorveglianza 3), per cui il problema di difesa giudiziaria si è esteso ad oltre 10.000 detenuti. La scusa è che bisogna prevenire le fughe dei detenuti che vanno in tribunale, ma noi tutti sappiamo che è una balla colossale in quanto le fughe avvenute (a parte quella di Cutrera, che non era però in un regime speciale) sono zero assoluto. Il vero motivo è economico, cioè favorire i finanziatori della “Politica” con l’assegnazione degli appalti per le videoconferenze…

Da una lettera di Antonino (Faro) dal carcere di Sulmona, maggio 2014

“...poi c’è il sistema dei processi in videoconferenza, sono un imputato virtuale, poiché fanno i processi senza potersi difendere, parlano del giusto processo e invece fanno i processi con due pubblici ministeri ma senza presidente (di tribunale o di corte d’assise o d’appello) perché fanno e dicono quello che vogliono…”

Da una lettera di G.B. carcere di Novara, 17 giugno 2001

“…Mi chiedevi dell’abbandono da parte nostra del ‘processo’, ma sarebbe meglio dire del collegamento in video, perché come è noto, in aula non ci siamo proprio. Di fatto, come puoi immaginare, l’estromissione fisica dall’aula possibile con il 41bis, nel nostro caso di militanti prigionieri, favorisce l’emarginazione della contraddizione rivoluzionaria, che, in un momento quale quello processuale, in cui lo stato riafferma il suo potere ‘vulnerato’ da parte dei militanti è importante rivendicare la propria identità rivoluzionaria e le ragioni storiche, politiche e sociali della prassi rivoluzionaria della propria organizzazione…Naturalmente su un piano pratico non si è nella stessa condizione di poter intervenire all’occasione ritenuta necessaria, come in aula, questo per ragioni tecniche e per come viene gestita la strumentazione tecnica, in quanto l’uso del microfono sottostà alla pressione di un pulsante gestito non autonomamente [dal prigioniero, ndc] come in aula, ma dal facente funzione cancelliere…”

Da una lettera della compagna Nadia delle BR–Partito comunista combattente spedita dal carcere di L’Aquila il 3 dicembre 2006

In effetti la compagna Nadia, i compagni Roberto e Marco rinunciarono a partecipare al processo proprio perché la videoconferenza rendeva la loro presenza e il processo stesso “una farsa”.

 Nel corso degli anni…

l’impiego del processo in videoconferenza è stato esteso anche a prigionieri non  in 41bis, insomma, a compagni e a ribelli. È il caso di Adriano e Gianluca (arrestati nel 2013 per azioni rivoluzionarie nei Castelli romani), condannati in primo grado dal Tribunale di Roma rispettivamente, a 3 anni e 8 mesi e 6 anni “per associazione con finalità di terrorismo internazionale”.

“Spendo solo poche parole a sostegno della scelta di non presenziare all’udienza del 26 maggio, ed eventualmente alle prossime, essendo stata disposta la videoconferenza.

L’applicazione di tale dispositivo rientra, per ora, nell’infame logica della differenziazione dei circuiti detentivi, dove l’individuo recluso e imputato viene demonizzato e disumanizzato data la notevole ‘pericolosità sociale’.

Sperimentato nel 41bis vuole ora estendersi ai prigionieri classificati A.S. e in ogni processo dove la solidarietà e conflittualità sono o potrebbero essere caratterizzanti e quindi elementi di disturbo e opposizione per chi, applicando codici in vestaglia e bavaglino, svolge il proprio lavoro, decidendo sulla libertà fisica altrui. Non possedendo peraltro alcuna virtù, ma avendone facoltà. Dato il diritto. Data la legge.

La videoconferenza pone limiti ben precisi a discapito di chi è sotto processo, favorendo da ogni punto di vista accusatori e giudicanti.

Ragionando poi ad ampio raggio, le limitazioni potrebbero non riguardare solo l’ambito processuale…

Considerate le magnifiche sorti del progresso, tale strumento di contenzione, anche per ragioni economiche, vorrà un domani estendersi ulteriormente e dilagare in molti se non in tutti i processi. Non ci vuole poi molto ad allestire stanzette con schermi, microfoni e telefoni. Lor signori sempre troveranno una “valida” motivazione per giustificarne l’impiego. Come ovvio che sia, la non neutralità dell’avanzata tecnologica si mostra in ogni ambito e sempre rivela l’essere asservita al Potere.

La virtualizzazione di un processo, per quanto significativa, è in fondo poca cosa comparata alle nefandezze dell’autorità (in questo caso giudiziaria) ma è comunque indicativa in relazione a quella che è la virtualizzazione della vita, volta a controllare e annichilire, dove vengono meno emozioni, espressività e sensorialità… dove viene meno la bellezza stessa della vita e la libertà di viverla realmente.

Mi risparmierò quindi di sentirmi uno scemo, ritrovandomi seduto davanti a uno schermo per assistere inerme al teatrino che vedrà come coprotagonisti assenti me e mio fratello Gianluca.

Sarà quindi un giorno di galera come un altro, dove la rabbia è una costante, ma si cerca, per quanto possibile, stabilità e un po’ di serenità. Non nascondo la tristezza di non potere rivedere e magari riuscire ad abbracciare le persone a cui tengo e sentire il calore di compagnx solidali. Solo nella lotta la liberazione! Solo nell’anarchia la libertà! Adriano

17 maggio 2014

Estratto da uno scritto di Mattia, in carcere dal 9 dicembre 2013 con l’accusa di “attentato con finalità di terrorismo”, sabotaggio di un generatore nel cantiere Tav di Chiomonte.

La prigione degli sguardi, note sul processo in videoconferenza

[…]

L’ultima frontiera nel campo dei “trasporti per motivi di giustizia” è il processo per videoconferenza, dove il trasporto semplicemente non avviene, se non in forma immateriale.

L’imputato di un processo che si trovi già in carcere per precedenti condanne, o che sia sottoposto a carcerazione preventiva, può essere processato a distanza, senza che debba abbandonare il carcere in cui è ristretto. Accompagnato in una sala attrezzata all’interno del carcere, segue il dibattimento su un apposito schermo, sotto l’occhio vigile delle guardie penitenziarie e quello tecnologico di una telecamera disposta a catturare la sua immagine e a ritrasmetterla nell’aula dove si celebra il processo che lo vede imputato.

Come il passaggio dalle “catene” alla “vettura cellulare”, l’introduzione della videoconferenza segna un passaggio che riassume in sé un cambio di paradigma. La videoconferenza è infatti un dispositivo tecnologico e come tale non è neutrale, ma al contrario la sua mediazione comporta mutazioni profonde che affondano nella viva carne di chi ha sfidato la legge.

Ne ‘I miserabili’, Victor Hugo descrive così il dispositivo punitivo per eccellenza, il patibolo: “il patibolo è visione. Il patibolo non è una struttura, il congegno inerte fatto di legno, di ferro e di corde. Sembra una specie di essere dotato di non so quale tetra iniziativa; sembra che quella struttura veda, che quella macchina oda, che quel meccanismo comprenda, che quel legno, quel ferro, quelle corde vogliano. Nella spaventosa fantasticheria che la sua presenza suscita nell’anima, il patibolo appare terribile a partecipe di ciò che fa. Il patibolo è complice del carnefice; divora, mangia la carne, beve il sangue. Il patibolo è una specie di mostro fabbricato dal giudice e dal falegname, uno spettro che sembra vivere una sorta di spaventevole vita fatta di tutta la morte che ha dato”.

La videoconferenza, a differenza del patibolo, non è un dispositivo che esegue una pena già comminata, tanto meno quella di morte che non è più prevista nel codice penale, ma ancor più del patibolo, articolata com’è di microfoni e telecamere, è una “struttura” che “vede”, una “macchina” che “ode”. Certo, non “mangia” la “carne”, ma a suo modo “disincarna” l’imputato, smaterializza il suo corpo, lo riduce a un insieme di bit producendo un impatto visivo e di senso all’interno di un processo che non è da sottovalutare: per suo tramite la presenza dell’imputato, ancorché lontana, diviene spettrale, il suo corpo viene trattato come una interferenza video cui la parola può essere concessa o sottratta con semplice “clic”. Trionfo del pudore riformatore che già ripulì le strade dalle catene umane dei forzati e che ora, attraverso le nuove tecnologie, “libera” le aule di giustizia da quella presenza incomoda e stridente perché vi appaia indisturbata l’astrazione del diritto. Negato è anche l’abbraccio tra coimputati che neppure in quella circostanza possono rivedersi. Nessuno scambio affettivo neppure con il pubblico, che neanche appare sullo schermo. Nessuno sguardo complice, nessun saluto ai propri familiari e amici. Una volta entrati in carcere, seppure in via preventiva, non se ne esce più, neppure per il processo. Intombati, cementati. La giuria stessa è portata a considerarti così pericoloso da non poter essere tradotto al suo cospetto. In qualche modo la tua colpevolezza è già implicitamente designata nei modi di quella tua “presenza”.

In tutto questo, l’imputato ridotto a spettatore passivo. Osserva il suo processo su uno schermo come fosse una puntata di “Forum” o di “Quarto grado”. Unico suo diritto, come da tradizione televisiva, telefonare al suo avvocato durante l’udienza. Eppure è della sua vita che si sta parlando. Suo il corpo eventualmente destinato alla reclusione. Sua la vista amputata dell’orizzonte. Suo il tatto privato della stretta dei suoi cari. Suo l’olfatto orfano della primavera. Suo, infine, lo sguardo, abbattuto o fiero, che affronta il “castigo”, preventivo o definitivo, giorno dopo giorno. La videoconferenza è l’alleata tecnologica che perfeziona la prigione degli sguardi. Codarda, moltiplica gli occhi che scrutano chi ha offeso il confine della legge, ma non trova più il coraggio di guardarlo dritto negli occhi. Metafora cibernetica di una giustizia bendata che si dota di protesi oculari meccaniche, ma rimane sempre cieca.

Conclusioni decantanti

Introdotta in Italia per i detenuti sottoposti a regime di 41bis, la videoconferenza applicata ai processi sta ora rapidamente prendendo piede per tutti i detenuti meritevoli, dal punto di vista della giustizia, di un “occhio” di riguardo. È il caso di Maurizio Alfieri, rapinatore riottoso non incline alla domesticazione carceraria; è il caso di Gianluca e Adriano, anarchici accusati di diverse azioni dirette contro l’Eni, magnati dei rifiuti e altri consorzi veleniferi; potrebbe essere, quantomeno già lo è nella volontà della procura di Torino, il caso di Claudio, Chiara, Niccolò e dello scrivente, accusati di un atto di sabotaggio contro il cantiere dell’Alta velocità di Chiomonte. Una deroga speciale al “diritto di difesa”, che prevede la presenza fisica dell’imputato accanto al difensore durante il processo, giustificata con il solito pretesto della “sicurezza” e dell’ “ordine pubblico”. Una novità pericolosa, quella della videoconferenza destinata ad attecchire e a estendersi rapidamente se non subitamente estirpata, dacché, si sa, è l’eccezione di oggi a forgiare la norma di domani. Il paradigma che sottende a questa nuova “mutazione tecnica” è complesso, ed è difficile qui e ora computarne e sviscerarne tutte le declinazioni. Sicuramente il tipo di dibattimento processuale che va delineandosi vede una progressiva scomparsa dell’imputato, un crescente condizionamento a priori della giuria e lo strapotere inquisitorio dei pubblici ministeri. Quella che ho cercato di fare qui è di evidenziare alcune ricadute di questa mutazione tecnica concentrandomi sulla questione dello “sguardo”, cioè sullo scambio visivo tra occhio galeotto, occhio giudicante e occhio pubblico. Molte altre considerazioni altrettanto e anche più pregnanti potrebbero essere fatte. Ad esempio su come la videoconferenza impedisca al difensore di confrontarsi con il proprio assistito durante l’udienza; o ancora come nella spettacolarizzazione dei processi gli effetti speciali e le illusioni ottiche siano spesso più determinanti dei fatti concreti di cui si discute. Ma la mia fede nel diritto è talmente scarsa che non sto a entrare nel merito di certi particolari. Preferisco concludere queste note approssimative attorno al processo in videoconferenza citando alcune vecchie canzoni galeotte, di quelle cantate nelle strade dalle catene dei forzati. Parole schiette che da sole dicono quasi tutto.

“Avidi di infelicità, i vostri sguardi cercano di incontrare tra noi una razza infame che piange e si umilia. Ma i nostri sguardi sono fieri.” “Addio, perché noi sfidiamo e i vostri ferri e le vostre leggi”.

Mattia, dalla sezione di Alta Sorveglianza del carcere di Alessandria, fine aprile 2014

Lettera di Claudio, “coimputato” di Mattia:

Sono incazzato, non un po’, tanticchio. Diciamo parecchio. Molto incazzato. Appena un’ora fa ho fatto la videoconferenza. ‘Na pagliacciata. Umiliante per certi versi. È inutile nasconderlo, questa data la aspettavo da molto tempo. La vita qui dentro è monotona, come si può intuire uno si affida a queste scadenze. Conto i giorni. Lo ammetto. Fra un mese ho quell’udienza. Una settimana, 2 giorni. 1 giorno. Stanotte non ho dormito. Ero agitato. Alle 3 mi son messo a leggere “La vera storia del capitano Long John Silver”. Risultato, stamattina avevo delle occhiaie della madonna.

Ho cercato in tutti i modi di agghindarmi per mostrare un viso presentabile. Almeno che i compagni vedessero che stavo bene. Forse lo sapevo che sarebbe stata una delusione però ho voluto sperare che qualcosa accadesse. Poi verso le 9 e 20 è venuto a prendermi l’ispettore. Mi son detto: «non farò un viaggio fino a Torino, ma vedrò un’altra parte della galera». La saletta della videoconferenza distava non più di 20 metri dalla sezione. Prima mi han messo in una camera di sicurezza. Mi son accorto allora che dentro al carcere ci sono pure dei giardinetti più o meno curati e fuori ci stavano degli alberi, non so di che tipo, ma il vento ne faceva muovere le foglie. Già, ci sono già le foglie, è arrivata presto la primavera quest’anno. Poi mi hanno portato nella saletta. Una stanza normale con due scrivanie, in una sedeva l’ispettore, sull’altra c’ero io con un bel televisore Lcd e telecamerina sopra. Beh a vedermi in Tv ero abbastanza presentabile. Appena entro in video un saluto forte ai compagni. Avevo ragionato su cosa fare, cosa dire. Saluto col pugno alzato, perché mi piace salutare così. Poi presto attenzione in aula, la Tv è rivolta dalla parte del giudice e basta. Che cretino mi sento, ho salutato solo il giudice. Avrei voluto mostrare un saluto a 39 denti o a 41, ma visto che mi vede solo il giudice sarò serio, farò il prigioniero serio. Sulla Tv ci sono io in un riquadro piccolo e poi si vede l’aula, 10 secondi il giudice e 10 secondi compagni, avvocati e la pm (che è brutta come una racchia). L’aula è grande, praticamente deserta. Provo a riconoscere i compagni perché la definizione video non è un granché. ‘Ste telecamere quando devono funzionare fanno le poco definite. ‘Fanculo. […]

Provo tanta rabbia dentro. So dell’immensa forza che mi vorrebbero dare tutti e sto qua seduto come un piciu in ’sta cazzo di galera. Vaffanculo al Dap. Al carcere. Ai giudici. A tutti loro.

L’ispettore dice che è finito, si ritorna in sezione, io scosto una tendina per guardare fuori, lui se ne accorge e mi dice che se voglio mi fa guardare pure dall’altro lato. No grazie. Passiamo accanto all’infermeria, c’è un detenuto comune, panico. Lo saluto. Eccomi nuovamente fra le mie 4 mura solite. Ancora una perquisa. A posto. Lo spettacolo per oggi è finito. Claudio”.

carcere di Ferrara, 1 aprile 2014